Racconto e relazione della salita al Pilone centrale del Freney lungo la via Bonington. Effettuato il 4 e 5 luglio 2020
con Mirco Grasso, Tommaso Lamantina e michele zanotti
Ci sono salite mitiche che ogni alpinista sogna di scalare, il pilone centrale del Freney è senza dubbio una delle più affascinanti. La storia della tragedia del 1961 durante il primo tentativo di scalata di questa cima da parte di Bonatti e compagni ha portato alla ribalta questo pilastro di granito appena pochi metri sotto la cima del tetto d’Europa.
Una settimana prima avevo salito la cresta dell’Innominata e da lì avevo dato una sbirciata al Pilone Centrale, che aveva ancora un po’ di neve sulle cenge ma le pareti erano abbastanza pulite e asciutte. Nonostante il parere dei colleghi valdostani che valutavano la salita ancora troppo innevata, decido di andare a darci un’occhiata più da vicino e il primo compagno a cui ho pensato per questa salita è il fortissimo Mirco Grasso, che senza esitazioni è felicissimo di condividere quest’avventura. A noi si unisce anche un’altra cordata composta dagli amici Tommaso Lamantina e Michele Zanotti.
Qualche giorno prima di partire sento più spesso Mirco al telefono che mia morosa, soprattutto la strategia migliore è il nostro pensiero. Infatti questa salita pur non essendo estremamente impegnativa a livello tecnico, lo è sicuramente a livello logistico dato che, raggiungere l’attacco del pilone a 4100m di quota sul ghiacciaio superiore di Freney, è già un salita di tutto rispetto.
Dopo qualche riflessione decidiamo di salire al rifugio Monzino e qui dormire, il giorno seguente salire agli Eccles il mattino presto e da qui proseguire a colle Eccles e scendere al ghiacciaio superiore del Freney all’alba, iniziando a scalare il pilone in mattinata e vedere dove saremmo riusciti a salire prima del buio. Il terzo giorno salire in cima al Bianco e da qui scendere a Chamonix. Ci eravamo tenuti un giorno bonus di sicurezza per avere un po’ di margine nel caso ci fossero stati degli intoppi.
E così neanche una settiamana dopo sono di nuovo alla porta del rifugio Monzino, e l’accoglienza di Mauro Opezzo è sempre la migliore, come si addice al rifugio sul versante più selvaggio e cattivo del Monte Bianco. A cena mangiamo come non ci fosse un domani, un po’ per l’ottima cucina un po’ perchè consci del fatto che il prossimo pasto decente non sarebbe arrivato prima di due giorni. Così alle 21 proviamo a dormire qualche ora visto che alle 1:00 saremo di nuovo in piedi. Condividiamo la colazione con la forte guida valdostanta Francois Cazzanelli che con un cliente è in partenza alla volta dell’innominata, direttamente fino in cima al Bianco senza fermate! La salita del ghiacciaio del Brouillard è in ottime condizioni e prima delle 6 siamo ai bivacchi Eccles dove ci concediamo un buon the caldo.

Ripartiamo e raggiungiamo facilmente il colle Ecceles. Da qui non va sceso il primo canale sotto il colle, ma si prosegue una cinquantina di metri sulla cresta e si scende un secondo canale dove è reperibile il primo ancoraggio per una doppia e, con tre calate (50m, 50m e 45m), si arriva nel Ghiacciaio superiore del Freney.

Da qui si attraversa verso il Colle Peterey, nella zona meno ripida del ghiacciaio superiore del Freney. Il pilone centrale sovrasta tutta la conca, la Chandelle su in alto è ben riconoscibile, l’attacco è proprio sotto la sua verticale. Da qui si ha una buona prospettiva per individuare il miglior punto per superare la terminale che, ad inizio luglio, quando siamo saliti, non è stato complicato, come lo è probabilmente a stagione più avanzata.

All’attacco vi è una corda fissa forse per aiutare la risalita delle prime rocce con gli scarponi quando c’è meno neve, ad ogni modo, superare la prima fascia di rocce più scure è semplice 3°. Si arriva così ad una cengia nevosa con una sosta, proprio sotto una pinna di granito che sporge in orrizzontale, qui ci siamo levati gli scarponi e abbiamo indossato le scarpette, da questa sosta bisogna attraversare a destra girando uno spigoletto 4°+, unico passaggio non evidente di tutta la parte bassa del pilone.

Il resto del percorso è evidente e non obbligato, in linea di massima ci si tiene sempre vicini allo spigolo. Si segue la linea più logica e facile (max 5°+) il passaggio più impegnativo è uno strapiombetto, più impressionante che difficile. Sul percorso sono presenti numerosi chiodi e soste; noi abbiamo cercato di fare tiri lunghi, trovando sempre una sosta dove serviva. L’ultimo tiro, sotto la “cengia” alla base della Chandelle, è sul versante opposto dello spigolo, quindi all’ombra, e noi l’abbiamo trovato ghiacciato e molto ostico, ma ci si protegge bene con friend. Da qui si esce sul ripido pendio innevato alla base della Chandelle. Che per una crestina di neve e roccia conduce alla sosta in cui Bonatti e compagni nel 1961 passarono numerose notti.

Ci troviamo alla base della Chandelle, su una cengia inclinata, che noi abbiamo trovato completamente intasata di neve e, con un buon lavoro di pulizia, sarebbero dovuti uscire 3 posti da bivacco ma, siccome era ancora presto (circa le 15) e non avevamo voglia di scavare tutta quella neve, decidiamo di fare un altro tiro. Alla sosta successiva sembrava esserci un altro posto da bivacco, purtroppo arrivati qui lo spazio per dormire era giusto un gradino di granito dove star seduti, quindi ci fermiamo e iniziamo a sciogliere un po’ di neve e mangiare qualcosa. Anche se era abbastanza presto, continuare a salire non era semplice dato che ci attendevano tre tiri molto impegnativi ormai all’ombra e la roccia gelida rendeva la salita abbastanza spiacevole, così a malincuore decidiamo di prepararci ad un bivacco decisamente poco confortevole. Armati di piccozza iniziamo a scavare nella neve gelata e pulire la sommità dei due pilastri dove ci trovavamo, alla fine in un ora di lavoro ne escono due piani in cui entrambi potevamo stare sdraiati.
La mia belle cengia da bivacco Mirco nel suo bivacco con vista
La prospettiva della notte che sarebbe seguita ora non sembrava così tetra. Procediamo con la cena a base di liofilizzati, sicuramente comodissimi e nutrienti in una situazione così scomoda, anche se non mi fanno impazzire. Tra l’altro continuiamo a parlare di una bella bistecca con le patate al forno, un bel sogno a 4500 metri ma, a malincuore, ci accontentiamo di una pasta con le verdure che, comunque con la fame che avevamo, si è rivelata quasi buona. Beviamo ancora un po’ d’acqua e ci prepariamo alla notte. Sistemato il materassino, metto lo zaino sotto la testa e mi infilo, scarponi compresi, dentro il sacco a pelo. Per risparmiare peso, entrambi ci eravamo portati dei sacchi a pelo molto leggeri, il che vuol dire anche freddi, ma per fortuna in una fessura della roccia trovo una specie di sacco di alluminio abbandonato chissà da quanto e, con quello e con la coperta di alluminio d’emergenza, cerco di creare una specie di involucro protettivo. Mentre tento in vano di dormire dò uno sguardo al tramonto sulla valle e questa vista ripaga di tutte le fatiche della giornata, uno dei più bei momenti vissuti in montagna…

Le prime ore della notte riesco anche a dormire, poi si alza un leggero venticello che non ci da tregue sbattendo continuamente la coperta di alluminio, fino a che una raffica più intensa non me la porta via definitivamente, ora non dormo più per colpa del freddo invece che del rumore… Verso le 5 inizio a guardare l’orologio, avevo troppo freddo per uscire dal sacco a pelo e penso anche Mirco, così aspettiamo il calore dell’alba, d’altronde questo pilastro a quasi 5000m prende i primi raggi del sole. Il mio orologio segnava l’alba alle 5:19 ma non vedendo luce alle 5:30 realizzo che è ancora settato sul “fuso” delle dolomiti che essendo circa 600km a Est del Bianco vedono il sole mezz’ora in anticipo, così mi rassegno ad un’altra mezz’ora di freddo. Finalmente, grazie ai miei incitamenti, il sole poco prima della 6 sorge, e noi usciamo dai nostri freddi sacchi a pelo, ci attiviamo subito preparando la colazione e sciogliendo l’acqua per la giornata, alle 7:30 sto già scalando il primo tiro della Chandel che mi da una bella sveglia…

Il secondo tiro lo sale Mirco e si rivela più semplice del previsto, un traverso verso destra su buone prese, a parte il primo metro dopo la sosta (tra l’altro non bellissima e completamente appesa). Il terzo tiro è il famoso camino strapiombante che lo sale sempre Mirco in artificiale, qui decidiamo di recuperare gli zaini con un cordino, il che si rivela molto comodo visto che il tiro strapiomba a sufficienza e gli zaini non strusciano sul granito. Da questa sosta ci si alza qualche metro per poi attraversare a sinistra facilmente.

Ora si sale seguendo logicamente un sistema di fessure e camini fino a sotto la cima del pilone, dove bisogna attraversare verso destra una placca un po’ delicata per poi ritornare a sinistra più facilmente fino a sostare sulla cima del pilone, scomodamente.

Qui facendo attenzione conviene mettere via le scarpette e indossare scarponi e ramponi. Mentre mi infilavo gli scarponi, pensavo al racconto di due sere prima, quando il Tommy, ancora al sicuro del Monzino, ci raccontava di un suo amico che in cima al pilone infilando gli scarponi ne ha perso uno, ed è stato costretto a proseguire con una scarpetta d’arrampicata fino in cima al Bianco e da qui scendere. Potete immaginare con che cautela abbia eseguito quest’operazione, dato che non avevo alcuna intenzione di vedere com’era scendere dal Bianco in scarpette.
Una volta in cima al Pilone il peggio è passato, ma quando ero in sosta guardando il percorso che ci divideva dalla cresta del Brouillard mi è preso lo sconforto, intanto dovevamo fare una calata nel canalone che divide il pilone dallo sperone del Brouillard, e vi assicuro che è un posto orrido, e da qui risalire un terreno misto che sembrava insidioso e difficile, è superfluo dire che ovviamente non c’era nessuna traccia. Con quest’angoscia decido di partire avanti io, mi sentivo ancora in forma e non vedevo l’ora di levarci da quel postaccio.

Alla fine come spesso accade salire questa sezione si è rivelato tecnicamente più facile del previsto, solo molto faticoso per via della neve un po’ pesante perché cotta dal sole. A metà strada Mirco mi da il cambio e sale veloce fino alla cresta del Brouillard dove troviamo la traccia che avevo battuto la settimana prima salendo dall’innominata e che ora è un’autostrada visto il numero di ripetizioni di quei giorni.
Da qui senza grosse difficoltà in mezz’oretta arriviamo in cima al Bianco, stanchi ma felici.

Sapevo che la discesa dei Tre monti non era in buone condizioni così scendiamo lungo la via Normale Francese. Sono le 14 passate e siamo in super ritardo ma proviamo a fare una corsa disperata per prendere l’ultima corsa del trenino. Ma quando arriviamo al Gran Couloir del Gouter l’orologio impietoso segna le 15:50 così lasciamo perdere il tentativo disperato di prendere il trenino (che avevamo appena scoperto partire alle 16:40) e scendiamo con calma al Tete Rousse, dove ci mangiamo una deliziosa omelette con della buonissima acqua fresca, e anche qualche costosissima birra. I miei soci, dovevano tornare al lavoro l’indomani, dunque non ci resta che scendere fino a Les Houches, così ci facciamo la discesa più lunga delle Alpi senza scorciatoie. Da Les Houches torniamo in Italia con un taxi. Arriviamo a Courmayer per l’ora di cena e non poteva mancarci una buonissima pizza a Le Boite.

complimenti per l’ascensione e per la serenità con cui l’avete vissuta. Grazie per averla condivisa. Le foto sono galattiche, bellissime.
Chissà i tuoi compagni di cordata com’erano in ufficio il giorno successivo..
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Buongiorno,ho appena finito di leggere “Il pilone invincibile” di Virginie Troussier e la lettura del vostro racconto mi ha aiutato a rivivere ed a capire le difficolta’ di quell’impresa alpinistica.Le fotografie sono stupende.Complimenti ed un saluto!
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